Emilio Vedova e la sua Arte
Emilio Vedova nasce a Venezia il 9 Agosto 1919. Si avvicina alla pittura da autodidatta. Nel 1942 si unisce al gruppo corrente dove incontra Renato Birolli, Umberto Vittorini, Renato Guttuso ed Ennio Morlotti.
Nel 1943 alla caduta del regime fascista aderisce attivamente alla Resistenza.
Nel 1946 firma a Milano con Morlotti il manifesto del realismo “Oltre Guernica”. Nello stesso anno è tra i fondatori a Venezia del “Fronte nuovo delle Arti”.
Nel 1951 la sua prima personale a New York alla Catherine Viviano Gallery. Sempre nello stesso anno vince il premio per i giovani pittori alla prima Biennale di S. Paolo in Brasile.
Nel 1960 gli viene assegnato il Gran Premio per la pittura alla xxx^ Biennale di Venezia.
Nel 1961 inizia gli studi per i Plurimi. Lui e Giorgio Morandi saranno gli unici artisti italiani invitati a esporre alla Alte Galerie di Monaco.
Dopo il ritiro di Oscar Kokoschka dal 1965 al 1969 Vedova riceve l’incarico di
direttore della Internazionale Sommerakademie di Salisburgo, che sarà rinnovato nel 1988.
Dal 1975 al 1985 l’artista insegna alla accademia di Belle Arti di Venezia.
Alla fine degli anni 70 comincia a sperimentare nuove forme e tecniche che approdano ai Plurimi-binari e ai dischi.
Muore a Venezia il 25 Ottobre 2006
Vedova veneziano
Non solo di nascita, ma intrinsecamente tutto veneziano, artisticamente, intellettualmente, culturalmente, antropologicamente.
Tutta la sua poetica non è fatta di certezze. Da essa traspare la condizione reale e arcaica su cui poggia Venezia; i legni, i pali, la città che sorge dalle palafitte, la conquista faticosa della terra, strappata al mare, ma mai definitivamente risolta, da queste sensazioni primordiali nascono i temi centrali della sua pittura e scultura: il vuoto e la sua organizzazione.
Vedova è affascinato da Tintoretto, grande pittore veneziano di cui può ammirare le opere alla scuola di S. Rocco. Ciò che colpisce profondamente Vedova non è il manierismo del Tintoretto, ma la forza che promana dal suo gesto pittorico. Recepisce nelle sue opere il grande tema del contrasto. Luce ombra, bene e male, cielo e terra, gioia e sofferenza, divino e umano. Già nei suoi primi lavori egli traccia una poetica in questo senso, alla quale rimarrà fedele per tutta la vita.
Nell’opera del Tintoretto in cui S. Marco libera lo schiavo (1547-1548) si vede centralmente il corpo del santo capovolto, con le gambe all’aria, in alto in piena luce i piedi, in basso immersa nell’ombra, la faccia. Allegoria dell’inconscio (Il complesso dei processi psichici che non giungono alla soglia della coscienza)? Inconscio che non smette mai di costituirsi. E’ lo storico, la stratificazione plurima della memoria, la nostra memoria più antica? E’ un Arche che si tratta di recuperare, di far risorgere, di redimere dall’oblio?
L’ inconscio di Freud (Sigmund Freud 1856-1939, fondatore della psicoanalisi) segnala precisamente il carattere indistruttibile di questa insistenza, del ritorno incessante dall’esilio della memoria di una parola, (di un desiderio) che vuole essere riconosciuta.
In Lacan (Jacques Lacan 1901-1981 psichiatra e filosofo francese nonché uno dei maggiori psicoanalisti del 900) invece l’inconscio non è solo ciò a cui si riferisce Freud, ma anche possibilità di una apertura inaudita, per una nuova scrittura della nostra vita. Esso non è solo il già scritto che si ripete inesorabilmente, ma un non ancora scritto che esige la sua realizzazione inedita.
Nell’opera di Vedova queste due versioni dell’inconscio si danno insieme. A tal proposito alcuni suoi allievi della Accademia di Venezia raccontano che quando un allievo si trovava paralizzato di fronte alla tela bianca, incapace di procedere, il maestro interveniva con decisione immergendo dapprima uno spazzolone in un secchio di colore per poi colpire violentemente il bianco immacolato della tela. Questo gesto spiazzante sortiva un effetto de-angosciante che consentiva agli allievi di procedere più spediti e creativi nel lavoro.
Questo gesto, contrariamente a quello che potrebbe apparire, crea un vuoto, in quanto azzera la nostra percezione del bianco della tela, percezione soffocata dai nostri ricordi, dai condizionamenti culturali, dagli stereotipi che ci siamo costruiti, dalla stratificazione dei nostri ricordi consci e inconsci. Allora dopo quel gesto azzeratore è possibile creare nuove immagini, ma è necessaria una certa quota di oblio, una dimenticanza, una sospensione contingente del Codice prestabilito.
L’insegnamento di Vedova con il colpo di spazzolone è che ogni atto creativo deve saper mantenere sempre in una tensione feconda memoria e invenzione. Esso ( l’atto creativo) non ha la struttura di un lampo, ma piuttosto quello di un’onda. L’inconscio Memoria e l’inconscio Matrice non può essere cancellato dal colpo di spazzolone, ma può essere solo contingentemente sospeso. Non è risolto una volta per tutte, ma deve ripetersi nel lavoro quotidiano giorno dopo giorno, come un’onda appunto che si esaurisce dopo aver scaricato la sua forza, si ritira e si rinnova incessantemente. L’opera di Vedova tiene insieme in modo straordinario l’inconscio memoria con l’inconscio non ancora realizzato, l’inconscio Matrice con l’inconscio Evento. In lui è una lotta perpetua tra queste due polarità. Il suo segno deciso, forte e consapevole di muoversi costantemente sull’orlo dell’Abisso.
L’opera di Vedova, non è la semplice esibizione del suo fantasma, non è una rappresentazione mimetica del suo inconscio, ma memoria sovvertita, generativa, memoria del futuro, salto nel vuoto, sorpresa, imprevisto. In Vedova è l’inconscio che viene all’opera, non il suo fantasma, o se si preferisce è l’opera che produce l’inconscio. Qual’è invece il pensiero fondamentale di Vedova sull’arte? E’ che la potenza dell’opera si manifesta come una forza intraducibile, esorbitante, eccedente che ricerca e trova sempre e solo precariamente la sua forma. (Rimarca nei suoi dipinti la forza del gesto e del colore ridotto alle sue matrici prime, il bianco e il nero, il nero percepito come il vuoto, l’oscuro spazio del mistero, del nulla).
I cerchi e i dischi di Vedova
Il lavoro sul cerchio si impone come il tema più decisivo della sua poetica. Il cerchio è una figura ideologica perché esprime la geometria dell’ordine, dell’equilibrio, del Cosmos che esclude lo scandalo del reale, l’eccedenza ingovernabile della vita e della morte. E’ il centro a istituire il cerchio. Anche Leonardo inscrive l’uomo vitruviano in un cerchio, non casualmente. L’uomo come centro dell’Universo. In questo senso il cerchio non può essere disgiunto dall’ideologia. Vedova oppone alla logica metafisica del cerchio quella pulsionale del disco. I dischi eccedono infatti l’ideologia cosmologica del cerchio. Emblematica a tal proposito l’installazione mobile studiata da Renzo Piano nell’allestimento dei dischi alla fondazione Vedova nei magazzini del sale in punta della dogana a Venezia, essa coglie perfettamente lo spirito di questa opposizione vedoviana tra il cerchio e il disco. Mentre il cerchio gode di una sua compatta identità, è fuori dallo spazio e dal tempo, i dischi vivono il tempo pulsatile dell’inconscio: appaiono e scompaiono, si muovono, rotolano, sono dentro e fuori, fratturano l’idea geometrica dello spazio. Per rompere ciò che la figura del cerchio rappresenta, è necessaria una violenza sovversiva e traumatica per entrare nel cerchio e farlo esplodere. Il passaggio dall’ideologia del cerchio al reale del disco mostra come il centro non abbia più centro perché il disco si moltiplica, si dissemina, si diffonde, si sposta dalla parete, rotola verso un’incognita.
La pittura di Vedova mostra il disco come violato, colpito, aggredito, lacerato, perforato da pali che lo squartano e lo riconducono alla terra. In particolare il palo conficcato nel corpo del disco allude a una sorta di crocefissione dell’opera, a una sua incarnazione radicale, all’annientamento dello spiritualismo astratto di cui si nutre l’ideologia del cerchio.
La cerniera e i plurimi
I plurimi, (sagome geometriche irregolari di legno, messe a terra e dipinte su tutti i lati) esposti per la prima volta a Roma nel 1963, privi di piedistallo, aperti sullo spazio che li ospita, rivela una volta di più la spinta radicalmente decostruttiva di Vedova nei confronti della costruzione architettonica statuaria, piramidale, armonica e della sua esigenza di pervenire a un’opera i cui confini siano messi permanentemente in questione, a un’opera autenticamente aperta.
I plurimi rivelano ancora una volta la centralità dell’opera d’arte come organizzazione del vuoto: il suo slancio critico, corrosivo, non può mai essere separato da quello organizzativo costruttivo.
Per questa ragione nei plurimi assume un valore centrale il motivo della “cerniera” che consente la tenuta formale dell’opera, come fosse il simbolo dell’articolazione unitaria dei diversi pezzi staccati di cui è fatta l’opera stessa. Per Vedova, esporsi al vuoto, rompere il cerchio, accostare il precipizio non significa affatto autorizzare all’annientamento nichilistico dell’opera. Per lui, non c’è opera se non come articolazione della forza della forma. Non c’è opera senza cerniera, senza possibilità di unificare i frammenti.
di Gianluigi Franchina